Quali che siano gli sviluppi e l’esito del dibattito in corso sulla prospettiva del Partito democratico, muoviamo dalla comune consapevolezza che i Democratici di sinistra, così come sono, appaiono insufficienti rispetto all’obiettivo di dare una compiuta rappresentanza e una guida più salda ad una società che ha conosciuto negli ultimi decenni mutamenti tanto profondi da averne radicalmente ridisegnato la fisionomia.
Per le giovani generazioni, in Italia, i problemi sono davvero molti e investono alla radice il modello sociale nazionale.
Il nostro, inutile negarlo, è un Paese largamente bloccato.
Un Paese senza molte opportunità, con uno degli indici di mobilità verticale più bassi in Europa e con il più alto tasso di clientele. Carente di stimoli e riconoscimenti per quanti, soprattutto nell’ambito della ricerca scientifica, non hanno che talento e passione e sono costretti all’espatrio. Segnato da una primitiva arretratezza in ordine alla disparità che ancora oggi separa l’uomo dalla donna nella distribuzione delle opportunità sociali.
D’altro canto il nostro modello di welfare, anziché sostenere ragazze e ragazzi nel tentativo di guadagnare con più rapidità una vita adulta emancipandosi dai genitori, ruota quasi esclusivamente attorno alla figura familiare. Anziché assicurare parità di condizioni a tutti i cittadini – per esempio con una diversa legislazione del mercato del lavoro e garantendo continuità contributiva ai lavoratori atipici, in massima parte giovani – si concentra in prevalenza su funzioni risarcitorie. Quando, invece, occorrerebbe che un nuovo e più inclusivo Stato sociale individuasse come prioritario – coerentemente con il modello di welfare universale proprio delle socialdemocrazie europee, che va difeso – tutelare i diritti connessi alle nuove tipologie lavorative e investire nella formazione permanente. Ed occorrerebbe capitalizzare la capacità e l’entusiasmo dei nostri giovani, anche sperimentando nuove politiche pubbliche.
La questione generazionale, insomma, da qualunque parte la si osservi, ha in questo Paese un nome semplice e al tempo stesso rivoluzionario: meritocrazia. Sia dato spazio al talento, sia incoraggiato il merito. E siano soddisfatti i bisogni. L’opposto della legge del più forte che, socialmente parlando, è la legge del privilegio.
La classe dirigente italiana, invecchiata, autoreferenziale e chiusa alle donne, rispecchia in massima parte una tale mancanza di meritocrazia. Ne è, anzi, al tempo stesso, causa ed effetto.
Basterebbe scorrere l’elenco dei nomi di quanti siedono nei consigli d’amministrazione delle principali società quotate in borsa. Una lunga teoria che esemplifica a colpo d’occhio quanto il nostro capitalismo risenta ancora oggi di un’impostazione troppo ‘familiare’ e troppo poco aperta ai risparmiatori e alle public companies.
Lo stesso dicasi per la classe docente universitaria. La musica, salvo rari casi, non cambia. La raccomandazione del docente è la norma, il riconoscimento del merito l’eccezione. E la maggioranza degli studenti non smette, giustamente, di indignarsi per come vengono svolti i concorsi accademici. Con quali effetti sull’auspicato patriottismo costituzionale è assai facile immaginare.
Così anche nel mondo delle professioni. Per accedervi i giovani laureati sono obbligati a svolgere un periodo di pratica, ossia di lavoro non retribuito, pari a due-tre anni, terminato il quale comincia una defatigante procedura d’esame, assai simile a una lotteria, che si protrae per mesi e mesi. Sempre che si abbia la fortuna di essere promossi, rientrando nelle quote che talvolta, addirittura, taluni ordini professionali, illegalmente, predefiniscono.
Per non parlare del ceto politico. Laddove potrebbe e dovrebbe germinare l’impulso decisivo per lo svecchiamento d’una simile mentalità vige incontrastata la legge della cooptazione, che non sempre premia l’impegno e le capacità. Mentre modalità davvero democratiche di scelta della leadership rappresentano il terreno d’elezione su cui sperimentare principi e valori meritocratici pubblicamente professati costituendo, in sé, un manifesto programmatico: una specie di modello in scala ridotta della società che vogliamo e che proponiamo ai cittadini.
Per tentare di trasformare una società siffatta le giovani generazioni guardano alla sinistra italiana, di matrice riformista, con la speranza che essa riesca a dotarsi di un partito moderno, grande, aperto, popolare, di ispirazione egalitaria, libertaria e solidaristica. Un partito tanto robusto e autorevole, insomma, da realizzare quelle riforme di cui l’Italia ha un vitale bisogno, scardinando gli interessi corporativi e riattivando le troppe energie che giacciono inutilizzate.
Un partito intimamente collegato alla sinistra europea e internazionale, che contribuisca a definire un nuovo compromesso, necessariamente nel segno della sostenibilità ambientale, fra politica democratica ed economia di mercato ristabilendo la supremazia della prima sulla seconda, perduta negli anni ruggenti del neo-liberismo. E ciò anche in ragione dei fallimenti in cui è incorsa la logica del puro mercato i cui costi si sono scaricati sulle classi sociali più bisognose.
Un partito laico, capace di contrastare ogni deriva ideologica e confessionale, e di rispondere coerentemente alle domande nuove che stanno emergendo, specie fra i giovani, su temi che spaziano dalla lotta contro tutte le discriminazioni, all’estensione dei diritti civili e delle libertà individuali, alle incognite sugli scenari inediti aperti dalle biotecnologie.
Un partito vero, radicato capillarmente sul territorio, dotato di moderni mezzi telematici e partecipato da centinaia di migliaia di iscritti.
Un partito sinceramente democratico, che dia agli iscritti e agli elettori – che vogliono essere protagonisti e non spettatori del cambiamento – la possibilità di scegliere progetti, programmi e candidature. Che sappia introdurre meccanismi di ricambio costante e statutariamente regolato dei gruppi dirigenti e delle rappresentanze elettive, così da collegare in maniera snella e funzionale i dirigenti con gli iscritti, e chiamando, in alcuni fondamentali passaggi, direttamente i cittadini-elettori a selezionarne la leadership e a verificarne periodicamente il comportamento.
Essenziale e improcrastinabile è, a questi fini, la realizzazione di un cambio, anche nel senso del ringiovanimento, dei gruppi dirigenti del partito. Su quest’ultimo aspetto si avverte diffusamente l’esigenza di una esemplare chiarezza nella determinazione degli obiettivi di medio e lungo periodo.
Il percorso congressuale dei Ds, ad ogni livello, a cominciare dalle Unioni comunali e dagli organismi dirigenti della Federazione di Pistoia, dovrà cogliere l’opportunità, ormai matura, per stringere un patto responsabile fra le generazioni – e fra i generi – dando corso agli impegni in più circostanze assunti tesi a promuovere una nuova leva di dirigenti, consolidatasi in questi anni nell’impegno diretto dentro il partito e le istituzioni, e ad assicurare, attraverso una prassi permanente della formazione dei quadri, un ricambio continuo dei livelli direttivi.
Compagne e compagni – molti dei quali sottoscrittori del presente documento, e altri ve ne sono – che hanno, da anni, profuso generosamente le loro energie e impiegato il loro tempo per concorrere alla realizzazione di obiettivi collegialmente definiti e che, oggi, chiedono al partito di dare laicamente seguito ad un autentico ricambio generazionale per recuperare freschezza a gruppi dirigenti che, via via, hanno subito un inevitabile logoramento, pur avendo raggiunto importanti obiettivi storici, fra tutti il buongoverno delle città e del Paese, guadagnandosi in tal modo la riconoscenza degli iscritti e degli elettori.
In questo quadro, di solidarietà intergenerazionale e di complessivo rinnovamento dei gruppi dirigenti a tutti i livelli, dovrà essere affrontata, dal nostro punto di vista, anche la questione di chi dovrà guidare, segretario o segretaria di Federazione, la nuova fase politica che si apre.